Remember the past: AVATAR

Tratto da Alone in Kyoto del 22 gennaio 2010
 
 

 “Su e giù per Pandora, il Mondo che non c’è” 

 

 

Avatar - LocandinaDopo la morte del fratello, un ex marine viene reclutato da un gruppo di multinazionali per partecipare ad una missione sul lontano pianeta Pandora, al fine di favorire l’estrazione di un minerale raro in grado di salvare la Terra. Per muoversi, data la tossicità dell’aria, l’uomo si avvale di un Avatar, un essere creato dalla fusione tra il DNA degli umani e quello dei Na’Vi, gli alieni del posto.

Premessa. Io sono per la libertà di espressione, e credo di essere abbastanza aperto ad ogni tipo di confronto. “Ognuno è libero di esprimere e sostenere la propria opinione”, afferma il mio credo. Ma, detto tra noi,  detesto l’anticonformismo spicciolo di coloro che cercano in tutti i modi di andar contro il gregge. Che si parli di Cinepanettoni, dei lavori di Tony Parkinson Scott o, nel caso specifico, della pellicola considerata tra le più importanti dall’inizio del nuovo millennio, non riesco a mandar giù chi è solito sminuire una pellicola con l’intento di sentirsi diverso o, peggio ancora, superiore. Mi sa di snobismo. E detesto lo snobismo quasi quanto le stesse pecore del gregge. 

Detto questo, partiamo subito col dire che Avatar non è un capolavoro. La lista dei difetti della pellicola a cui James Cameron ha lavorato per 13 anni è lunga abbastanza per escludere il film dall’élite del cinema.
Il regista di Terminator, Aliens – Scontro finale, The Abyss e Titanic attinge dal baule storico realizzando un lavoro ibrido in cui alla fantascienza si mescolano influenze che spaziano dall’avventura al fantasy, dalle americanate di grana grossa ai film di guerra. Il contesto in cui si svolge l’ultima mezz’ora, per fare un esempio, riporta alla mente l’orrore e le circostanze al centro del conflitto del Vietnam. Il tutto preceduto da un proclama degno del miglior Braveheart – Cuore Impavido.
Il tratto debole della corda, in Avatar, sta proprio nell’aver voluto imbottire una trama già di per sè flebile e fin troppo telefonata, con una serie di idee riprese da vecchie pellicole e che danno inevitabilmente un lontano senso di dejavu. Il che non sarebbe una novità, se solo non stessimo parlando di una pellicola dalla portata ed ambizione smisurate.

001001Anche la recitazione fallisce nell’impari confronto tra presupposto e risultato finale. Fatta eccezione per le partecipazioni di Giovanni Ribisi (Lost in translation; Nemico Pubblico) e Sigourney Weaver (Alien; The Village), è un cast privo di nomi antisonanti quello che svolge il compitino in maniera sì diligente, ma senza lasciare una traccia rilevante nell’economia della pellicola. In tutta onestà, durante alcune scene in cui la mia attenzione si è soffermata sullo stampo recitativo generale, mi è parso di assistere ad un discreto B-movie, di quelli che vanno in onda durante i martedì sera in piena estate. Ad onor del vero, c’è comunque da sottolineare l’evidente difficoltà legata al dover recitare su un set fatto di sfondi di teli verdi e freddi studios elettronici. 

Ho detto che Avatar non è un capolavoro, è vero. Nonostante i suoi difetti, però, la pellicola (fresca vincitrice di due prestigiosi Globes) si guadagna la promozione grazie ad una regia molto attenta e ad un lodevole lavoro di squadra tra i collaboratori degli effetti digitali e della grafica in generale. In tal senso il film risulta stilisticamente perfetto, con la creazione di un mondo popolato da animali e piante mai concepiti prima, disegnati ed elaborati fin nei minimi particolari, al fine di trasformare il sogno in realtà.
La tecnica 3D, poco invasiva e volta ad esaltare determinati soggetti nella messa a fuoco, ripaga il lavoro di Cameron, valorizzando soprattutto le sequenze girate in soggettiva, attraverso l’uso di speciali telecamere all’avanguardia. Durante le fughe nei boschi di Jake, infatti, vi capiterà praticamente di schivare i numerosi rami delle piante che riempiono l’immensa foresta di Pandora. Le scene migliori, però, vengono offerte dai paessaggi notturni che il pianeta dei Na’Vi offre, con una miriade di specie floreali a far da contorno ad un contesto luminescente da far brillare gli occhi.
Ciò nonostante, non tutti sono rimasti soddisfatti dall’effetto 3D di Avatar. Sentendo qualche commento in sala post-proiezione, alcuni spettatori hanno lamentato il poco coinvolgimento della tecnica, fin tanto che qualcuno ha addirittura osannato il trailer di Alice in Wonderland e la testa dello Stregatto ad un palmo di naso.  Personalmente io ho gradito il modo di utilizzo del 3D nella pellicola. Se non altro non mi ha provocato alcun mal di testa o senso di nausea, a differenza di altri casi. 

Pompato dal processo mediatico oltremisura, a tratti B-movie, a tratti pacchiano, a tratti colossal, Avatar supera comunque l’esame grazie ad una pregevole regia e alle superbe tecniche innovative. Forse non cambierà la storia del cinema, ma l’ultimo film firmato James Cameron rappresenta un sensibile passo in avanti nel settore dell’intrattenimento da

P.s.: La polemica sul mancato divieto ai minori della censua italiana è del tutto infondata. Il film, sigarette della Weaver a parte,  è praticamente innocuo.  

 

Punti di forza: La regia attenta ed innovativa di Cameron; gli scenari mozzafiato; il meraviglioso effetto 3D

 

Punti deboli: La trama prevedibile; le sequenze che sanno di “già visto”; la recitazione non impeccabile;

 

Remember the past: TRICK ‘R TREAT – LA VENDETTA DI HALLOWEEN

Tratto da Alone in Kyoto del 28 ottobre 2009
 
 
 

 “Chi la fa, l’aspetti”

nuova-locandina-di-trick-r-treat-130943_jpg_400x0_crop_q85Un preside sadico ed i suoi strani rituali. Un’affascinante cappuccetto rosso alla ricerca del principe azzurro. Un gruppo di ragazzini testimoni di un oscuro ritrovamento. Un vecchio burbero alle prese con un ospite indesiderato. Quattro storie dell’orrore si rincorrono tra loro, nella particolare cornice della notte più spaventosa dell’anno vissuta in una piccola cittadina dell’Ohio.

L’apertura, in bianco e nero, ci mostra un breve avviso di pubblica utilità in cui si mettono in guardia i bambini sui potenziali rischi celati nella notte di Halloween, specie durante il tradizionale rito del “Dolcetto o scherzetto?”. La sequenza bicromatica lascia presto spazio ad una storiella/aperitivo che anticipa gli strepitosi titoli di testa in stile fumettistico. Una coppia di fidanzati, di ritorno da una parata in maschera, decide di profanare l’evento, violando la regola che vuole la lanterna accesa per tutta  la notte delle streghe. Pessima scelta, come si può prevedere.

trick-r-treat-1Partendo da questo episodio, il regista Michael Dougherty ci mostra una serie di situazioni avvenute nelle ore precedenti, sfruttando al meglio la struttura dell’incrocio narrativo. Lo sceneggiatore di Superman Returns, all’esordio dietro la macchina da presa, scava nel baule delle leggende metropolitane americane e, mediante il vecchio motto del “nulla è ciò che sembra”, gioca con lo spettatore, spiazzandolo in continuazione. In bilico tra impeccabile ironia e tensione equilibrata, Dougherty ci offre una regia mai disordinata, con ottime riprese panoramiche e buona cura degli elementi tipici del contesto halloweeniano.

Forse il maggior merito da riconoscere a Dougherty, però, sta nella capacità (e nella facilità) di passare dalle atmosfere innocue a quelle più inquietanti, attraverso momenti in cui non viene risparmiato qualche onesto brivido allo spettatore. Niente eccessi, però. Nè con gli sbalzi di suono (tipici degli horror contemporanei), nè con lo splatter, nè con gli effetti speciali. A tal proposito, notiamo con piacere come in Trick or Treat sia quasi del tutto assente la tanto dannosa computer grafica (vedi QUI e QUI). L’utilizzo di pupazzi e maschere, invece, dona alla pellicola quel tuffo nel passato che, insieme ad una serie di simpatiche citazioni (La casa 2, In compagnia dei lupi, Cimitero vivente) rende l’atmosfera inebriante per gli amanti del vecchio horror anni ottanta.

trick_r_treat14Un’atmosfera, quella che si percepisce nelle strade di Warrey Valley, in cui prevalgono i colori caldi dei comics e il clima autunnale di fine ottobre. Le lanterne accese lungo i viali, il tappeto di foglie gialle e la parata in maschera avvolgono le mosse dei personaggi, tutti pronti per celebrare al meglio (o al peggio) la suggestiva ricorrenza. Vampiri, zombie, maniaci e la ragazzina più odiosa della storia del cinema horror si muovono nel buio, pronti a convergere in un’indimenticabile (e, per alcuni, ultima) notte di terrore.

Per concludere, diciamo che pur offrendo delle storie molto semplici, Trick ‘r Treat è indubbiamente il miglior film degli ultimi vent’anni sul tema di Halloween. Un’autentica perla capace di diffondere quell’atmosfera e trascinare il pubblico nella festa più affascinante e suggestiva dell’anno.

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Go – Una notte da (non) dimenticare

Go Una notte da dimenticare Teaser Poster

 

Di film destinati all’anonimato ne è piena la storia del cinema, ed io mi sono sempre interrogato sul motivo per cui questi titoli finiscono col passare in sordina per poi lasciar sbiadire le loro già precarie tracce.  A parer mio, alcuni di questi non meritano l’oblio. Ed è per questo che oggi voglio spendere qualche parola per Go – Una notte da dimenticare.

 

Go Una notte da dimenticare HDPellicola della fine degli anni novanta, tempi in cui per vedere un film in prima visione di domenica sera dovevi approdare al più vicino Blockbuster, munito della tua tessera fedeltà. In quegli anni era tutto eccessivamente pop ed underground, e i primi rave party facevano prepotentemente capolino come alternativa allo svago dei più giovani. Go trasuda tutto questo, ne coltiva la storia e fa di essa una sorta di manifesto di quella fetta di gioventù bruciata di quegli anni.

Go RonnaIl filone è uno di quelli a me più cari, quel Tutto in una notte che mi intrattiene parecchio e mi tiene incollato alla poltroncina del cinema di casa. Quattro storie si intersecano tra loro, tra i tasselli di un puzzle cronologicamente lineare che richiama la struttura delle pellicole di un certo periodo Tarantiniano. La notte viene vissuta da quattro prospettive differenti, completando sul finale il grande mosaico prodotto. Ma non è solo la tecnica di montaggio a fare il verso ad un certo genere di cinema. I dialoghi e le situazioni palesemente irrealistiche del film di Doug Liman sfociano spesso nel non-sense più assurdo, dando vita ad una sorta di Pulp Fiction acerbo che piacerà agli amanti del genere.

Il cast è formato dai “Saranno famosi” dell’epoca, giovani promesse che, a dire il vero, hanno nel tempo disilluso le aspettative. Spiccano su tutti i nomi di Katie Holmes (la Joey di Dawson’s creek ed ex Sig.ra Cruise), William Fichtner (Armageddon, Crash) e Sarah Polley (talentuosa regista, qui nei panni di attrice). 

Go ScreamLa colonna sonora di Go gioca un ruolo importante all’interno della pellicola, proprio perchè tutta la storia viene mostrata come se fosse un frenetico videoclip. La stessa soundtrack, poi, può vantare la partecipazione di numerosi artisti celebri degli anni novanta come i No Doubt, Natalie Imbruglia e Fat Boy Slim. Anche le musiche strumentali (la cosiddetta Score) che accompagnano le vicende notturne dei protagonisti, hanno un’impronta fortemente trip hop, genere molto in voga all’epoca. 

In conclusione, vi rinnovo il mio parere favorevole alla visione di Go – Una notte da dimenticare. Un film per nulla pretenzioso, che gioca a prendersi in giro, e che però può facilmente intrattenere il pubblico, specie quello in cerca di un tuffo negli anni novanta americani.

The Place – Un posto fuori dalla mappa

The Place

 

ALERT!: Questo articolo contiene spoiler.

Non sono più quello di una volta. Non ho il tempo di essere quello di una volta e di dedicarmi alle mie passioni come vorrei. Il poco spazio a disposizione (che poi già mancava in questi anni) mi ha costretto a fare delle scelte imbastendo una cernita delle mie priorità in termini di hobby. Il risultato è che non riesco più ad occuparmi di cinema come prima (i tempi di Alone in Kyoto sono lontani). Anzi, ho abbandonato quasi del tutto questo campo. 

Tuttavia, ci sono dei film le cui premesse ed anteprime mi colpiscono e che poi cerco di recuperare, magari a più riprese. Questa cosa, ad esempio, è successa per The Place di Paolo Genovese. La buona premessa, in questo caso, è dovuta dal fatto che Perfetti sconosciuti (penultimo lavoro del regista) mi abbia entusiasmato al punto tale da idolatrarlo e consigliarlo a tutti. Peccato che, cast corale a parte,  The Place sia tutt’altro. 

La trama. Un uomo siede ogni giorno all’interno di un ristorante, ricevendo la visita di diverse figure, promettendo di accontentare le loro richieste in cambio di un’azione da portare a termine. 

Fin qui sarebbe un film dalle grandissime possibilità. Tuttavia si perde nel tentativo di portare avanti una trama che non arriva mai a nessun colpo di scena. Se le prime fasi della pellicola sono tutte proiettate sui primi piani del protagonista e sull’aria misteriosa che lo circonda (quasi a spronare ad interrogare lo spettatore sulla vera identità del tizio), il resto di The Place è lineare e lento ai limiti del piattume. Tutti gli eventi che si svolgono nell’unica location mostrata (anche questo un azzardo per un pubblico che non è quello da teatro) seguono la stessa struttura tra loro: Qualcuno ha bisogno di qualcosa, si fa un accordo, qualcosa va storto, si ravvedono. Fine.

E non basta un buon parco di musiche (quasi tutte strumentali), un’ambientazione le cui luci al neon la fanno da padrone ed un cast più che buono. Il film non decolla. Insomma, pur applaudendo al coraggio di realizzare una pellicola fatta esclusivamente di dialoghi, ci vuole altro. O rendi le parole memorabili, o realizzi una trama che porti a qualcosa.

Ed invece, in The Place inizi la visione spinto dalle domande sul protagonista e il suo operato (“Chi è? Che fa? Lo vedono tutti? Perchè tutti gli altri sono prevalentemente calmi, anche quando gli animi si scaldano?”) e finisci a cercare una svolta che non arriva mai. 

Ritentateci meglio.

Il ritorno di Michael Mann

Blackhat_Michael_Mann

E’ stato rilasciato da qualche ora il trailer di Blackhat, cyber-thriller che segna il ritorno dietro la macchina da presa di Michael Mann. Nel cast troviamo, tra gli altri, Chris Hemsworth, Viola Davis, Manny Montana, William Mapother e John Ortiz.

Regista di Manhunter, Heat – La sfida, Collateral, Miami Vice e tanti altri successi, Mann si era concesso un lungo periodo lontano dalla direzione cinematografica in seguito al flop di Public Enemies – Nemico Pubblico. Inutile dire che, adorando letteralmente la tecnica registica, i filtri notturni e le riprese in digitale, io non veda l’ora di godermi il suo nuovo lavoro. 

Purtroppo la data d’uscita nel nostro Paese è ancora sconosciuta, mentre la premier americana è stata fissata per il prossimo 16 gennaio.

Nel frattempo, di seguito c’è il  primo trailer di Blackhat. Che ve ne pare?

 

Cercasi amore per la fine del mondo – La recensione

Cercasi Amore

Anche se vedere un film per intero è diventata un’utopia (considerati, soprattutto, i miei consolidati ritmi), giovedì sera sono riuscito a vedere Cercasi amore per la fine del mondo. 

Ok, piccola premessa. Questa è stata l’unica volta che l’ho citato col penoso ed insulso titolo italiano. Ringraziamo ancora una volta le insane menti che stravolgono i titoli nella nostra lingua e partiamo. 

Commedia dal sapore agrodolce diretta da Lorene Scafaria, al suo esordio alla regia cinematografica e già sceneggiatrice per Nick & Norah – Tutto accadde in una notte (che, tra l’altro, conosco e non è mi è piaciuto). La Scafaria, dietro la macchina da presa, mette in campo tutta la sensibilità che solo una donna riesce a trasmettere, rendendo questa pellicola una piccola perla, infondendo un’atmosfera malinconica che permane per tutta la sua durata, anche nelle scene più leggere. 

La storia segue la vita di Dodge (Steve Carell), un piccolo assicuratore, sullo sfondo dell’imminente fine del mondo causata da un asteroide diretto a vele spiegate verso la Terra. Le sequenze iniziali vedono notiziari in perenne countdown dell’evento, con una parte della popolazione in preda ad isterismi, mentre altri sono decisi a negare a sè stessi il verdetto finale.  Nell’evidente caos che regna in città, Dodge si ritrova mollato dalla moglie, con un lavoro che ormai non ha più ragione di esistere ed un cane trovato per caso al parco. L’incontro con l’eccentrica Penny (Keira Knightley) farà da preludio ad un viaggio alla scoperta della vera forza della vita.

Analizzando Seeking a Friend for the End of the World posso lanciare alcuni pensieri a caso:

Il film ha un’ottima prima parte, quella che posso definire più comica, mentre la seconda parte diventa leggermente più stancante, per poi riprendersi verso il finale.

In totale la pellicola ha un buona illustrazione del contesto ed una gran bella colonna sonora anni ottanta.

Il film può essere annoverato, tra gli altri, anche tra il genere dell’on the road. 

La pellicola mi ha ricordato il bellissimo La mia vita a Garden State. I personaggi femminili sono molto simili: entrambi pieni di vita, entrambi strambi. Anche se l’interpretazione della Penny di Keira Knightley non raggiungerà mai quella di Sam, interpretata dalla Portman, in Garden State.

Sebbene abbia letto in giro pareri contrastanti a riguardo, il finale è in linea con quello che veramente mi aspettavo (SPOILER: E il messaggio finale del giornalista nell’ultimo telegiornale è di un’intensità raramente ammirata sul grande schermo).

Detto questo, mi sento di consigliare e di promuovere a pieni voti Seeking a Friend for the End of the World. Sono consapevole del fatto che è un tipo di pellicola che non può piacere alle masse. Però a me ha lasciato qualcosa, soprattutto il sano desiderio di rivederlo senza alcuna remora. E questo lo considero importante.

La Top 15 degli shock negli horror

Concept Art Horror

 

ALERT!: Post contenente spoiler un pò a casaccio.

Sono un cultore delle classifiche, un pò come i protagonisti di Alta Fedeltà di Nick Hornby. 

Shocktillyoudrop ha stilato un countdown delle 15 scene più scioccanti contenute nei film horror. Partendo dal presupposto che ognuno di noi ha una soglia di stupore diversa, il sito specializzato in notizie sul mondo dell’orrore ci gioca su e prova a scovare i momenti più disturbanti e spaventosi del genere. 

Si parte con la scena della nascita del Chestbuster contenuta nel primo Alien di Ridley Scott, raccontando che all’epoca dell’uscita nelle sale del film c’è stato addirittura chi ha lasciato il cinema in preda ai più svariati sensi di nausea. 

Un gradino più in alto per le rivelazioni di Rosemary’s baby che precedono lo shock di Donald Sutherland nel suo A Venezia… un dicembre rosso shocking (Ma che razza di titolo è?). La scena di Sarah che uccide la madre in À l’intérieur è al numero dodici. 

La classifica è bella ricca, e se volete visionarla tutta potete andare QUI. Per quanto mi riguarda, e per ciò che concerne la mia conoscenza, mi ha divertito ricordare alcune sequenze che avevo rimosso. Come il finale di The Mist, così diverso da quello del racconto di King ma evidentemente più sbalorditivo. 

Una delle scene più “spiazzanti” a cui ho assistito al cinema, sebbene non particolarmente terrificante, è il colpo di scena sul finale di Scream. Non avrei mai pensato ad una collaborazione tra Billy e Stu. Penso che all’epoca Wes Craven si divertì parecchio a depistare lo spettatore durante lo svolgimento dei fatti.
E cosa dire del finale di Saw – L’enigmista? Che razza di mente diabolica ha potuto partorire un epilogo tanto magistrale?

In quanto a voi, ricordate di aver assistito a scene scioccanti al cinema? (E no. Non parlo di vicende viste durante le code al biglietto o nei bagni dei Multisala). 

In coda, se siete amanti delle classifiche come me e avete voglia di scoprire i 100 momenti più spaventosi della storia del cinema, potete andare QUI e rileggere qualcosa del vecchio My World…

Un fine settimana positivo

 

“Uno deve fare tutto quello che può, deve impegnarsi al massimo. Se fai così, se rimani positivo, vedrai spuntare il sole fra le nuvole.” 
(Pat Solitano, Il lato positivo)

 

Fine settimana positivo, malgrado le mie abitudini siano state stravolte da grane convenzionali a cui avrei fatto volentieri a meno.  I programmi in questo weekend miravano soprattutto a tener fuori dalla mia vita qualsiasi rottura di carattere sociale, incluse le visite pomeridiane della domenica. So che questo suona un tantino agorafobico, ma almeno nei giorni di festa mi piacerebbe tenere il passo con i miei svaghi. 

Dicevo, weekend positivo.

Sono riuscito a recuperare le ultime due puntate di American Horror Story, ed ora aspetto di godermi il Gran Finale;

Ho rimesso in sesto la mia indole da pollice verde, con risultati più che soddisfacenti. Stare a contatto con la natura è forse la più sana terapia del buonumore;

Finalmente le macchie di colla nel mio bagno lasciate dal vecchio lavandino in muratura sono andate via. La conseguenza? Una ritrovata ottimizzazione di tutto il contorno; 

Inoltre, ho finito la visione, seppur spezzettata, de Il lato positivo, diretto da David O. Russell, già regista del discreto The Fighter

 

Il lato positivo - Comic

 

Interpretato, tra gli altri, da Bradley Cooper e Jennifer Lawrence, il film racconta il reinserimento nella società di Pat, un uomo afflitto da disturbi psichici causati da un trauma che l’ha visto testimone del tradimento della moglie. Nel tentativo di riconquistarla, Pat accetta il compromesso proposto da Tiffany,  una giovane donna dalla torbida personalità e dal passato complicato.

Ora, non voglio dilungarmi nel giudizio sulla pellicola (per quello il posto è Alone In Kyoto) ma devo buttare giù qualche pensiero sparso e dire che Il lato positivo funziona egregiamente sotto certi aspetti. Primo su tutti l’ambientazione rustica. Il piccolo paesino della Pennsylvania sembra essere la cornice perfetta per le vicende della famiglia Solitano. Una famiglia in cui il conflitto tra padre e figlio la fa da padrone, un pò come accade in La mia vita a Garden State tra Andrew e suo padre. Le scene degli scontri verbali tra i due ci mostrano la buona interpretazione di Cooper e l’ottima mimica di De Niro (a cui, personalmente, avrei dato l’Oscar). Le note stonate, invece, vanno alla sceneggiatura (anch’essa candidata alla statuetta, ma che ho trovato un pò troppo piatta) e alla decisione di utilizzare per certi frangenti la telecamera a mano. Nel complesso, però, Il lato positivo è un prodotto che è riuscito ad intrattenermi di buon gusto. E per questo va promosso.

Buon inizio settimana. 

Ciao, Philip

PSH

Un fulmine a cielo sereno. O, almeno, così è apparsa ai miei occhi l’inaspettata notizia della morte di Philip Seymour Hoffman

Quarantasei anni ma con già una lodevole carriera alle spalle, l’attore newyorkense si è spento ieri nella stanza di un edificio in Bethune Street, battuto da una delle armi più pericolose e traditrici di quest’era: l’eroina

Ci aveva provato, Philip, ad uscire dal tunnel. Aveva provato a mettersi nelle mani dei medici per una disintossicazione e una riabilitazione necessarie per il proseguo della sua esistenza. Ma è ricaduto.

Di lui restano le molteplici prove attoriali a cui ci ha abituato ad assistere nel corso degli anni. E, personalmente, mi resta il ricordo della magistrale interpretazione di Lester Bangs in Almost Famous – Quasi Famosi (di cui potete vedere l’estratto più intenso qui di seguito). Il ruolo del più grande giornalista rock di tutti i tempi affidato ad uno degli attori più talentuosi di sempre. In quella pellicola, Hoffman ritagliò su se stesso il ruolo di “uncool”, di sfigato, riservando sguardi ed atteggiamenti nei quali uno come me si è sempre ritrovato. Un parallelismo a me molto caro che, d’ora in poi, diventa ancora più sentito.

E, di parallelismo in parallelismo, c’è ancora una cosa che accomuna il timido (nella vita) Philip Seymour Hoffman all’anticonformista Lester Bangs: lo stesso tragico epilogo per overdose.

Salutaci gli angeli, Phil.

Il Cinema che non torna più

Cinema Rialto

E finalmente arrivò il giorno della scadenza della Mini-Imu.

Lo so, lo so. Prima di tutto devo (ancora una volta) chiedere umilmente scusa per l’assenza prolungata di aggiornamenti che perdura, ormai, da un mese esatto. Prima ancora (o dopo, a sto punto), devo augurare a tutti buon anno in riprorevole ritardo. Ma è stato proprio l’impegno lavorativo incrementato dall’istituzione della “geniale” trovata del Governo Letta ad impedirmi di scrivere con una frequenza accettabile.
E dunque, dicevo, finalmente è arrivato il maledetto 24 gennaio. Tutti gli interessati a pagare la tassa sull’abitazione principale. Ed io che torno presente in questo posto. Per il piacere personale e, spero, di qualcuno di voi.

In questo venerdì di fine gennaio in cui l’inverno inizia a far sentire, timidamente, la sua voce attraverso temperature più abituali per il periodo, mi è giunta notizia dell’imminente triste sorte alla quale è destinato un luogo a cui sono molto legato affettivamente.

Era il 1998, ero nel pieno della mia adolescenza, ed era in uscita Titanic. Io ed un esiguo gruppo di compagni di classe (parliamo del gruppo degli sfigati, ad essere sinceri)  decidemmo di trascorrere una sera d’inverno al cinema a vedere questo filmone capace di fare ripetutamente il record d’incassi.
Aldilà del fatto che a fine serata mi ritrovai davvero sorpreso dalla totale bellezza della pellicola di Cameron, e mettendo da parte le mie divagazioni da inguaribile recensore, sposto il bersaglio dell’articolo sulla struttura che quella sera di tanti anni fa mi permise rendere globale ed incondizionata la mia passione per la settima arte: il Cinema Arcobaleno di Napoli.
Situato ai piedi del quartiere collinare del Vomero, tra i palazzoni e il caos tipici della mia città,  il Cinema Arcobaleno è stato, chiaramente, il luogo della mia introduzione al culto del cinema. Nonchè il teatro del mio primo appuntamento con quella che è poi diventata la donna della mia vita.

Negli anni novanta, il mondo (o almeno l’Italia) non era ancora pronto per le multisale da dodici proposte e per i centri commerciali. Il mondo proponeva ancora posti genuini fatti di due sole casse per comprare i biglietti, intervalli tra il primo e il secondo tempo e corse in sala per beccare i posti migliori. Il cinema Arcobaleno, con le sue invidiabili tre sale, era uno di questi posti. Malgrado la difficoltà nel trovare parcheggio nei dintorni, l’Arcobaleno aveva la rilevante prerogativa di essere raggiungibile anche con i mezzi pubblici, e ciò ha contribuito a rendere gli ultimi anni del vecchio millennio ricchi di ricordi per la mia generazione.  Ricordi che, per molti, rappresentano il passaggio temporale a ritroso verso uno stile di vita che ormai non c’è più.

Ma i tempi sono cambiati.  E, di questi tempi, non c’è più posto per il Cinema Arcobaleno, il quale chiuderà i battenti questa domenica 26 gennaio 2014.
Colpa della crisi, si dice. Colpa di un canone di fitto troppo alto, dicono. Al suo posto ci sarà un supermercato, si vocifera. Un triste epilogo che suona quasi come una beffa per un luogo che ha mandato, a sua volta, sul grande schermo finali di ogni genere e specie.

Questa notizia, lo ammetto, mi ha intristito abbastanza. E’ un venerdì grigio, come il cielo che s’innalza sulla città quest’oggi.

E mentre il weekend si avvicina a grandi passi, lasciate che vi saluti con il video di una canzone presente nella soundtrack di Cruel Intentions. Il brano si intitola You Could Make A Killing di Aimee Mann. Ci ritroviamo presto.